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Per chi volge le spalle

Per chi volge le spalle

fr. Giuseppe Filippini op
Simeon Griswold, Peter Paul Rubens, The Conversion of Saul, 1857, oil on canvas, Smithsonian American Art Museum, Museum purchase, 1974.131

Un vangelo di conversione

Scorrendo il Nuovo Testamento ci si rende presto conto che gli eterogenei testi ivi racchiusi risultano connessi, volendo semplificare, da una figura e da un concetto. Se è abbastanza pacifico, tanto per i cristiani quanto per i lettori occasionali, che il personaggio in questione è Gesù di Nazareth, il Cristo, meno evidente forse è il secondo elemento cardine. Si tratta di un invito che riecheggia attraverso molti testi neotestamentari, andando a costituire una sorta di costante del messaggio evangelico stesso: la chiamata alla conversione.

Sia il testo di san Matteo sia quello marciano pongono questo invito al centro della predicazione del Battista; 1 segue il testo lucano che, nel parlare del suo battesimo, lo definisce un «battesimo di conversione». 2 Il concetto viene ereditato e portato al suo pieno compimento da Gesù medesimo, il quale afferma: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». 3 Questo messaggio costituisce un sunto, si potrebbe dire, dell’intera predicazione di Cristo e, proprio in quanto tale, fa parte del lascito ricevuto dagli Apostoli con la Pentecoste; non a caso  san Pietro, subito dopo il dono dello Spirito Santo, catechizza la folla dicendo: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo». 4 

La Scrittura tuttavia non si limita a parlare di conversione ma ne propone anche un altissimo esempio; mi riferisco a san Paolo Apostolo, le circostanze del cui volgersi a Cristo sono narrate sia da san Luca che da san Paolo medesimo. 5 Tracciando una linea che va dall’annuncio del Precursore fino alla vita dell’Apostolo delle genti, esemplare di ogni conversione a Gesù di cui la Chiesa s’è arricchita, ci rendiamo conto di come questo momento sublime e spaventoso della vita spirituale costituisca il primo e costante invito che Dio rivolge ad ogni uomo raggiunto dalla Sua voce. Ci accorgiamo anche che questa chiamata si palesa sempre strettamente connessa al battesimo; questo fatto non può essere da noi letto come una semplice casualità ma, al contrario, come il primitivo annuncio dei due inseparabili elementi che vanno a formare l’atto medesimo. 

Ciò che voglio proporvi non è un’analisi teologica del concetto di conversione né una mera esperienza personale; si tratta invece di una via intermedia, di un vademecum che possa da un lato aiutarvi a comprendere questo invito che sempre risuona nel cuore di ogni cristiano, dall’altro indicarvi come potete agire per rispondervi efficacemente.

La forma del cammino

Per prima cosa, cerchiamo di capire cosa s’intenda per conversione. A livello etimologico il vocabolo deriva dal latino conversus, participio passato del verbo convertere. Quest’ultimo in senso proprio indica semplicemente l’atto del volgersi, in un verso o in una direzione, mentre figurativamente fa riferimento alla trasformazione ed al mutamento interiori. Ciò è particolarmente vero quando il verbo è usato in ambito religioso: comunica infatti un mutare dell’animo in riferimento ad una verità spirituale prima ignorata o respinta. 6 

Da questa breve analisi comprendiamo che il convertirsi comporta un unico, radicale movimento di tutto il proprio essere; tale moto può venire considerato sotto un duplice aspetto: da un lato, in connessione con il volgersi, come il mutare radicalmente il punto di vista sulla realtà; dall’altro, considerando invece il concetto di trasformazione, come un lasciarsi cambiare da essa. Quest’ultimo aspetto ben si collega e si comprende in quel rinascere dall’alto 7 ed in Cristo 8 che converge nel profondo legame rilevato fra la conversione ed il battesimo. Difatti proprio nel volgere a Cristo il proprio sguardo si trova la spinta prima e fondamentale di quel desiderio di rinascita e rinnovamento che ha nel battesimo in «Spirito Santo e fuoco» 9 il proprio compimento ed inizio. 

Prima di tentare un’analisi delle fasi concrete della conversione, conviene porre alcune premesse: trattandosi, in fin dei conti, dell’apertura ad una relazione, essa necessita, per essere posta in atto, dell’azione congiunta delle due parti. Tale agire sinergico, pur essendo presente in ogni momento, può naturalmente, di volta in volta, porre in primo piano ora l’uno ora l’altro attore, oscurando parzialmente il restante; ciò tuttavia non deve mai trarci in inganno: ogni passo verso la conversione presenta sempre il coinvolgimento di ambo le parti in causa. Per comprendere meglio il concetto, si pensi alle differenti fasi dell’innamoramento: questo sentiero, che conduce alla nascita di una solida relazione sentimentale fra due persone, le vede ambedue coinvolte in ogni suo momento; tuttavia è altrettanto ovvio che, di volta in volta, una o l’altra parte avrà un ruolo più attivo. Allo stesso modo le fasi della conversione vedono sempre presente tanto l’azione di Dio quanto quella dell’uomo; tuttavia l’iniziativa e la primaria responsabilità toccherà ora a noi ora all’Onnipotente. 

Secondariamente è necessario, non tanto per comprendere il discorso quanto per coglierne appieno i frutti, considerare che questo moto, interiore ma totalizzante, coinvolge ex parte hominis tutta la nostra persona o solo una parte di essa. Potremmo dire che esiste una conversione generale ed una particolare: la prima nasce dal rifiuto di Dio in Se Stesso ed ha come frutto l’accettazione, da parte nostra, di porci in relazione con Lui, pur se in modo inizialmente imperfetto; la seconda invece nasce come perfezionamento e compimento della prima e va a donare al Signore anche quegli aspetti che inizialmente avevamo cercato di serbare. Con questo intendo dire che il volgersi a Dio non è un moto che interessa solo coloro che «[…] abitavano nelle tenebre e nell’ombra di morte, prigionieri della miseria e dei ferri», 10 ma anche tutti quelli che, come il pubblicano al Tempio,11  vivono umilmente la loro fede, consci di essere peccatori. Difatti l’interezza del cammino del discepolo alla sequela di Cristo altro non è che il passaggio da una conversione all’altra, un sentiero le cui curve si fanno sempre più strette e raffinate mano a mano che ci avviciniamo alla meta. Spero quindi che questo mio scritto possa essere d’interesse, se non d’utilità, anche per quei lettori i quali, avendo già pronunziato il loro sì, sono ora impegnati a ripeterlo ogni giorno.

I differenti momenti della conversione che sto per proporvi non sono tratti dal nulla; si tratta invece del frutto di una mia personale riflessione sulla Scrittura che, pur senza presentare una così precisa schematizzazione, mostra senza dubbio quale natura abbiano le differenti tappe del cammino. Per dimostrare tutto questo ho deciso di appoggiarmi sul più complesso racconto di conversione presente nella Bibbia: sto parlando naturalmente dell’esperienza di san Paolo Apostolo, il cui avvicinamento a Cristo è, come abbiamo accennato sopra, narrato negli Atti degli Apostoli e nella Lettera ai Galati. 12 Per esplicitare il tutto, porrò in apertura ad ogni paragrafo alcuni brani biblici significativi. 

Il rifiuto

«Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri».13 

Potrebbe sorprendere, ma l’inizio di ogni conversione è una qualche forma di negazione delle fede, di quella Verità che ci è stata rivelata in Cristo. Ciò naturalmente si concretizza, come l’esperienza paolina ben evidenzia, nel radicamento in una visione del mondo e della vita più bassa ma, ai nostri occhi, più reale. Ora, esistono sostanzialmente due tipi di rifiuti sulla base dei quali può essere eretta una conversione: l’ignoranza e la libera scelta. 

Ignorante è colui che non conosce Gesù ed il vangelo e che quindi non solo non si è lasciato trasformare dalla fede ma si è radicato in posizioni in una qualche misura opposte. Inutile dire che questo stato può essere colpevole, quando ad esempio originato da superficialità o accidia spirituali, o innocente, quando dettato da specifiche situazioni storiche, sociali e culturali. In ambedue i casi comunque la negazione si radica in una mancanza di conoscenza; questa non necessariamente si concretizza nell’assenza di dati ma può consistere nell’ignorare il corretto punto di vista per interpretarli. Mi pare sia il caso di sant’Agostino d’Ippona, vescovo e Dottore della Chiesa, il quale, nelle sue Confessioni, 14 mostra che la sua ignoranza sul cristianesimo consisteva nell’incapacità di vederne la bellezza e la profondità.

Differente è invece il no pronunciato per libera scelta; si tratta di un rifiuto consapevole, figlio della preferenza data ad un’altra via ritenuta migliore. Di questo ci parla san Paolo il quale, dopo aver certo conosciuto gli elementi cardine del messaggio di Cristo, ha ritenuto preferibile l’insegnamento ebraico tradizionale. 

La distinzione proposta non deve essere presa con eccessiva rigidità: se nell’ignoranza v’è spesso anche lo zampino d’una volontà pigra o scialba, al libero rifiuto spesso concorre una conoscenza superficiale del vangelo e di Cristo. In questa fase è particolarmente importante un esercizio quantomeno responsabile, se non corretto, della propria libertà: l’uomo, guidato dalla Grazia, deve sforzarsi di vivere il suo rifiuto all’interno di una sincera ricerca della verità e del bene, così da fare del proprio cuore terreno fertile per la conversione. È questo il caso di san Paolo e di sant’Agostino i quali, anche prima della conversione, vivevano tale tensione nello zelo e nella ricerca del bene. 

Inutile dire che quando un credente incontra una persona che si trova in questa fase del percorso può fare due cose per aiutarla: stimolare in lei un maggiore ardore nella sua intima ricerca spirituale e mostrare, laddove possibile, come la fede sia il nobile approdo di quella da lui compiuta. 

La meraviglia

«E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”».15 

L’episodio miracoloso di san Paolo rende evidente una realtà che ci coinvolge tutti: nessuno supera la fase del rifiuto da solo. Anche se non tutte le conversione passano attraverso esperienze forti e nette come quella dell’Apostolo, ogni credente ha sperimentato, nella sua vita di fede, un momento, un singolo prezioso istante, in cui ha avvertito per la prima volta l’impalpabile bellezza di Dio. Non vi preoccupate se fate fatica a ricordare la vostra meraviglia: il Signore non sempre si manifesta con la magnificenza di un sole estivo ma, al contrario, spesso preferisce baciare i nostri volti con la delicata luce di un’alba. In ogni caso Egli agisce sempre nel modo migliore, il più consono a muovere i nostri cuori pigri.

Potremmo dire che l’esperienza della meraviglia provocata da Dio è come la pioggia che, cadendo nella giusta quantità sull’arido terreno dell’anima nostra, ci rende fertili e pronti. Naturalmente si tratta di un dono gratuito, di una Grazia con la quale il Signore stordisce la nostra mente, sempre intenta a cercare la felicità ed il bene, mostrando la magnificenza del tesoro cercato proprio laddove meno l’avrebbe atteso. Questa esperienza, questo divino richiamo all’attenzione, intende rispondere all’affannarsi, più o meno organico e produttivo, di cui è piena la fase del rifiuto: all’uomo alla ricerca, conscia o meno che sia, del divino, Dio risponde improvvisamente mostrando la vera bellezza dell’oggetto desiderato. 

La meraviglia è quindi l’umana reazione, carica di sorpresa e di desiderio, di fronte ad una risposta agli umani dilemmi che giunge con la potenza d’un deus ex machina. Non si tratta ancora di una vera spiegazione né tantomeno comporta una subitanea presa di coscienza della Verità; è semplicemente l’istintiva ed esperienziale consapevolezza che nella bellezza appena intravista si trova la via tanto agognata. 

In questo caso è evidente che il ruolo più attivo è di Dio, il quale sceglie tempi e modi per suscitare questo splendido abbaglio. Tuttavia la disposizione dell’uomo gioca comunque un ruolo importante: prima di tutto, la serietà della ricerca condotta nella fase precedente è direttamente proporzionale alla gioia con cui se n’accoglierà la soluzione; secondariamente l’interiore disposizione a lasciarsi sorprendere, a seguire una nuova direzione, è il seme necessario a rendere questa pioggia davvero fertile. Lo vediamo molto bene in san Paolo, un uomo il cui zelo nel giudaismo lo rese prontissimo a rispondere alla sconvolgente meraviglia della visione del Risorto.

Prima di passare oltre, proviamo a dire due parole sulle principali modalità di manifestazione di questo benevolo sconvolgimento. Nell’Apostolo abbiamo già visto la forma più eclatante, ossia il prodigio; inutile dire che non è comune e, perlomeno a parer mio, non necessariamente è la via più efficace. Basta ricordare l’enorme numero di miracoli compiuti da Gesù e la facilità con la quale molti li hanno semplicemente ignorati. Molto più frequente è il cambio di prospettiva: si ha quando qualcuno ci mostra, volontariamente o meno, da quale angolazione osservare la Rivelazione. A quel punto, come per un’opera d’arte ben spiegata ed illuminata, quella bellezza prima velata ci appare in tutto il suo fulgore e ci spiazza. Un esempio di questa forma lo troviamo secondo me nella vicenda di conversione di sant’Agostino: dopo una vita di ricerca, la meraviglia giunse nella sua esistenza, quasi in punta di piedi, attraverso le parole di sant’Ambrogio, in grado di orientare il suo sguardo sullo splendore della Sacra Scrittura. 16 Infine vi è la testimonianza; si tratta della folgorante visione di uno o più aspetti di Dio superbamente o perfettamente incarnati in un essere umano a Lui legato da obbedienza. Può capitare di essere profondamente meravigliati dalla vita di carità di un cristiano o dalla gioia dell’esistenza di preghiera di un monaco o, più semplicemente, dalla profonda serenità con cui un discepolo di Cristo affronta la sofferenza e la morte. Qualunque sia la forma specifica assunta, si tratta sempre di esperienze nelle quali la concreta umanità di qualcuno diviene lo specchio dove scorgere un riflesso di Dio, un bagliore della Sua luce limitato ma sufficiente a sconvolgerci. Per averne un esempio, basta pensare alla vocazione di san Matteo Apostolo: «Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì»; 17 è stata sufficiente una rapida occhiata e poche parole di Gesù, vero uomo e vero Dio, per sconvolgere totalmente l’esistenza dell’esattore delle tasse.

L’assenso

«Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, […]subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco».18 

Inutile dire che la meraviglia altro non è che uno stimolo, un bellissimo richiamo che necessità di una nostra risposta. Nelle grandi vicende di conversione questo assenso è solitamente istantaneo; con ciò non voglio dire che non conosca, come vedremo, uno sviluppo ed una comprensione graduale, bensì che l’apertura a Dio è, qualora avvenga, immediata. Ci aiuta a capirlo l’immagine della morte: proprio come il decesso, pur preparato da molteplici mutamenti nel nostro corpo, è in se stesso istantaneo, tanto che ora ci siamo e subito dopo non ci siamo più, allo stesso modo l’assenso ci si presenta come un mutamento sostanziale alieno ad ogni gradualità nello sviluppo. 

Potremo non renderci conto dell’esatto istante in cui i nostri occhi si aprono ma, a posteriori, è solitamente possibile rintracciare il momento in cui le tenebre non furono più date dalla cecità bensì dall’eccessiva intensità della luce percepita. L’atto dell’assenso ricade, come responsabilità, principalmente su di noi, pur non essendo naturalmente privo della Grazia di Dio, e si configura non come un consenso ragionato alle verità di fede bensì come una semplice apertura. Ciò che abbiamo a questo punto scorto di Dio, per quanto splendido e sconvolgente sia, non siamo ancora in grado di comprenderlo neppure parzialmente, per cui il sì che pronunciamo con il cuore non può essere rivolto all’esatto contenuto bensì alla possibilità che abbiamo scorto.

Chi decide di dare a Dio il suo assenso non fa altro che rendersi disponibile alla nuova realtà di cui ha gustato un assaggio. Si tratta, in qualche modo, di una disposizione simile a quella che abbiamo di fronte ad un piatto sconosciuto: non possiamo davvero sapere se ci piacerà ma, sulla base di quanto visto e percepito, decidiamo di concedergli il beneficio del dubbio. Per questa ragione è lecito affermare che l’assenso è il primo vero atto di fede del credente: un salto nel buio fondato non sul nulla ma sull’esperienza di un’innegabile bellezza.

Proprio per tale sua natura questo consenso non si configura tanto come l’accoglienza di un nuovo contenuto quanto piuttosto come il riconoscimento che nulla si oppone ad esso. Detto in altri termini, ciò che il convertito fa non è dire sì a qualcosa che non conosce davvero bensì prendere atto che non ha valide ragione per rifiutare ciò che gli viene offerto. 

Ritengo che questa realtà sia molto importante: tanto nella conversione generale quanto e soprattutto in quella particolare non dobbiamo mai dimenticare che ogni vero cambiamento nella vita di fede nasce non dalla capacità di argomentare un sì ma dall’incapacità di sostenere i no che opponiamo a Dio. Il nostro compito in quanto esseri umani non si situa quindi sul piano costruttivo ma su quello distruttivo: dobbiamo, come agenti bonificanti, rimuovere tutto ciò che, errando, possa opporre un diniego al Signore.

Il radicamento

«In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni». 19 

Vi è mai capitato di dover fare la doccia con l’acqua gelida? Anche se l’intera esperienza non è certo piacevole, la difficoltà più grande è prendere coraggio e lanciarsi sotto il doloroso getto; è prima di questo atto che può nascere in noi il rifiuto, dettato dalla paura, mentre in seguito ogni esperienza negativa viene, in qualche modo, affrontata proprio in virtù del primitivo consenso. Mutatis mutandis, la condizione del convertito è simile. Le maggiori probabilità di ribadire il proprio no a Dio si hanno nel momento dell’assenso mentre dopo, quando la Rivelazione deve mettere radici in noi, le sofferenze e le difficoltà vengono solitamente accolte con maggiore serenità.

Proprio in virtù di questo principio posso assicurarvi che la fase del radicamento della Verità in noi è tanto più faticosa quanto meno pericolosa della precedente. Si tratta di un periodo della vita del credente che di solito dura parecchio e che non ha mai davvero fine; anzi, si potrebbe affermare che ogni conversione particolare altro non è che un passo avanti in quel radicamento generale iniziato molti anni prima.

In parole povere, consiste nel declinare la Verità cui ci siamo aperti in virtù della fede a tutti i singoli aspetti dell’esistenza concreta. Questo processo si svolge in due fasi: dapprima riconosciamo come il credere in Cristo e nel vangelo influenzi uno specifico ambito; successivamente modifichiamo il nostro stile di vita per rispondere alla rinnovata consapevolezza. Per spiegarmi meglio credo sia utile ricorrere ad una piccola metafora: se la visione di Dio che abbiamo avuto nella fase della meraviglia è simile al paesaggio visto da un treno in corsa, il radicamento consiste nello scendere dalla carrozza ed osservare con calma il medesimo spettacolo. Questo significa che ciò che scopriamo vivendo per la fede e nella fede non è, assolutamente parlando, qualcosa di nuovo, poiché l’avevamo già colto con l’istinto nella subitanea apparizione della realtà di Dio; ciò che è davvero nuovo è il modo in cui tale verità interagisce con la nostra esistenza. 

Innumerevoli sono gli aspetti nei quali siamo chiamati a radicare la fede e tutti, pur portando certamente ad un miglioramento della nostra vita, vanno pagati con la sofferenza. L’essere umano, per sua stessa natura, soffre quando deve rinunziare ad un bene ed i frutti di comportamenti o pensieri malvagi o errati sono, pur nella loro parzialità, dei beni; ecco che quindi la purificazione cui la conversione ci chiama è un’esperienza tanto benevola quanto dolorosa. Per fare un esempio, l’impegno del cristiano a partecipare all’eucaristia domenicale è certamente qualcosa di bellissimo ed arricchente, tanto spiritualmente quanto umanamente; tuttavia è indubbio che impiegare circa un’ora della nostra sola giornata di riposo per andare in chiesa implica rinunziare a qualcosa di piacevole, come ad esempio un più lungo periodo di sonno.

Ecco quindi spiegato anche il motivo per cui il radicamento è più faticoso che pericoloso: solitamente chi si trova in questa fase rischierà, nella peggiore delle ipotesi, di serbare qualcosa di sé limitando la proprio apertura alla Rivelazione. Tuttavia ben difficilmente abbandonerà la fede medesima, poiché non gli sarà difficile tornare con la memoria all’oscurità che l’ha preceduta. 

Lo sforzo del radicamento è equamente distribuito fra il Signore e l’uomo: se infatti solo la Grazia di Dio, attesa e chiesta, può dischiudere le nostre esistenze alla Verità, d’altro canto la costante apertura ad una comprensione profonda e sincera della fede è la sola via al successo. 

La vocazione

«Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: “Riservate per me Bàrnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono».20 

Eccoci in fondo al nostro percorso, ad una fase che, pur senza negare il bisogno di ulteriori conversioni particolari, segnala il raggiungimento di un certo grado di maturità nella fede: si tratta della vocazione. Con questo termine non vogliamo semplicemente indicare, come solitamente si fa oggigiorno, la chiamata ad una qualche forma di consacrazione a Dio; s’intende invece il riconoscimento di un qualunque tipo di contributo che possiamo dare, nella fede, alla crescita ed al benessere della Chiesa. 

Quando la nostra esistenza inizia a farsi pregna della presenza di Dio allora le nostre menti, rese prima ottuse dal peccato, acquisiscono la capacità di concepire la nostra persona come organicamente inserita nella Divina Provvidenza. Quel misterioso ed altissimo disegno allora non ci appare più come qualcosa di alieno, un abito nuovo di cui vestirci, bensì come una pelle nuova della cui nudità non proviamo più vergogna.

Capire a cosa il Signore effettivamente ci chiami non è un traguardo raggiungibile con il mero ragionamento; anche se ora, da credenti, possediamo gli strumenti per comprendere l’intera nostra esistenza come dono di Dio, è necessaria una prospettiva più alta per apprezzare il quadro generale, per inserire la vita stessa nell’interezza del Suo pensiero. Per questa ragione la vocazione ricade quasi esclusivamente nelle mani del Signore; è Lui che la stabilisce e, allo stesso tempo, la palesa, chiedendo a noi, miseri servi, solo la prontezza e la docilità per cogliere la chiamata.

Anche se, lo ribadisco, non si finisce mai di convertirsi, sono convinto che questa sia l’ultima fase del processo. Quando il cristiano comprenderà ed amerà il proprio posto nel Corpo Mistico di Cristo egli, a prescindere da quanto piccola possa apparire la sua vocazione, saprà di aver illuminato con la fede la parte più importante della sua volontà affidando al Signore l’annosa scelta della via migliore per la gioia.

Riconoscimenti per le immagini

L’immagine di copertina è di Simeon Griswold, Peter Paul Rubens, La conversione di Saulo, 1857, olio su tela, Smithsonian American Art Museum, acquisto museale, 1974.131


  1. Cf Mt 3, 2 e Mc 1, 4.
  2. Cf Lc 3, 3.
  3. Mc 1, 15; simile è il testo di Mt 4, 17.
  4. At 2, 38; il medesimo concetto viene da san Pietro ripreso in At 3, 19.
  5. Cf At 9, 1-31 e Gal 1, 13-24.
  6. Cf voce «Conversione» in Dizionario etimologico online, consultato il 05.12.2022.
  7. Cf Gv 3, 3.
  8. Cf 1Cor 3, 1.
  9. Cf Mt 3, 11.
  10. Sal 107, 10.
  11. Cf Lc 18, 9-14.
  12. Cf At 9, 1-31 e Gal 1, 13-24.
  13. Gal 1, 13-14.
  14. Cf Sant’Agostino d’Ippona, Confessioni (edd. Giovanni Reale e Martin Skutella), Bompiani, Milano 2013.
  15. At 9, 3-4.
  16. Cf sant’Agostino d’Ippona, Confessioni, V, 13, 23 – 14, 25, pp. 605-607.
  17. Mt 9, 9.
  18. Gal 1, 15-17.
  19. Gal 1, 18.
  20. At 13, 2-3.

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