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Facile usare i social: ma educarsi a farlo?

Facile usare i social: ma educarsi a farlo?

fr. Giovanni Ruotolo op

C’è una sorta di filo rosso che unisce tutti gli ultimi episodi di cronaca che hanno visto coinvolti dei minorenni1, ma anche ragazzi e adulti, nell’uso dei media e delle nuove tecnologie, in particolare i social network. Oggi sembra esserci una vera e propria emergenza educativa, in questo, se da un lato gli strumenti che abbiamo nelle nostre mani, spesso concentrati dietro lo schermo del nostro smartphone ci danno l’illusione di poter fare qualunque cosa. Il tutto, come se vivessimo in un mondo tutto nostro, senza delle vere relazioni con il prossimo e, soprattutto, senza conseguenze. Come se di mezzo non ci fosse la vita propria e degli altri, ma come se tutto fosse uno scherzo.

Si sta creando un ambiente sempre più privo di empatia e di relazioni autentiche che, pure rimangono largamente possibili: se tutto è mediato dal virtuale, questo non toglie che anche le relazioni siano estremamente reali. Quello che facciamo non sparisce quando spegniamo il nostro cellulare. In un certo senso, anche nel mondo digitale, siamo dei seminatori: possiamo seminare un buon seme o seminare zizzania. Qualunque cosa decidiamo di fare, ha delle conseguenze.

In questo senso quello che appare evidente è il sempre più profondo distacco fra la facilità ad apprendere l’uso di una tecnologia e l’educazione a farlo. Gli strumenti sono sempre più semplici da usare. Chiunque può usare uno smartphone, navigare su internet, usare i social network, scattare foto, girare dei video. Siamo però educati a farlo correttamente? Sarebbe sbagliato vedere solo il male delle nuove tecnologie: certamente hanno allargato in maniera considerevole la possibilità di relazione e di accesso alle informazioni.

Oggi è molto più facile entrare in contatto con gli altri, ma delle relazioni fruttuose e non superficiali richiedono ben altro. Si tratta di qualcosa che, oltre ai suoi innegabili benefici, ha indubbiamente indebolito la sfera della nostra privacy. Siamo passati dall’idea del diritto alla connessione (come se fosse un’estensione digitale della nostra cittadinanza) a quella del diritto alla disconnessione sia nell’ambito lavorativo, sia nella vita privata. La possibilità che noi possiamo raggiungere (ed essere raggiunti) in ogni momento della nostra giornata non implica necessariamente che abbiamo il dovere di essere disponibili in ogni momento della nostra giornata né che gli altri abbiano il dovere di esserlo per noi, nemmeno per consultare notifiche e commenti sui social network.

Un’altra situazione paradigmatica di questo scollamento è nell’interlocuzione sulla rete, anche in questo caso, il campo è quello dei social network: credo che sia un’esperienza comune assistere o, peggio, trovarsi coinvolti in discussioni in cui, anche, ma direi soprattutto senza un serio motivo, i toni si scaldino e il linguaggio possa divenire anche molto rude. In questo senso, un elemento decisivo appare essere la mediazione informatica del device. In un certo senso è come se noi parlassimo a una macchina. Non è una grossa novità, se ci pensiamo, quando siamo in auto e stiamo guidando, non vediamo le altre persone all’interno dei loro veicoli, ma chiusi nella nostra, vediamo solo altre macchine. In questa condizione è molto più facile che si manifestino atteggiamenti offensivi e aggressivi. Quello che manca è il vedere il volto nell’altro, scoprirne i sentimenti in un sorriso o un corrugamento della fronte. È come se i nostri freni fossero un po’ allentati e, infatti, spesso freniamo troppo tardi o non freniamo affatto.

Un altro elemento che va tenuto in considerazione è che non è nemmeno possibile (soprattutto con l’esplosione dell’uso di bot sempre più sofisticati) avere la certezza dell’autenticità di quella comunicazione. In particolare, i social network sono “architettati” in modo da trattenere l’utente il più tempo possibile. Non sempre è chiaro il criterio con cui ci propone alcuni contenuti anziché altri. Se il social network, per esempio “impara” che sono particolarmente sensibile alla fisica, ai gatti e ai libri, allora quelli saranno i contenuti che mi proporrà più frequentemente e io potrei trovarmi in un mondo in cui la gente, prevalentemente si occupa di gatti, di libri e di fisica. Quella è la realtà? Assolutamente no. È il punto di vista che viene, nei fatti, creato per aumentare il mio tempo di connessione.

Lo stesso, dunque, vale per la rappresentazione della realtà: se è vero che il social media permette di entrare in contatto con persone diversissime, è altrettanto vero che tende a creare delle “bolle”, un po’ perché è perfettamente normale che persone che si interessano delle stesse cose finiscano per incontrarsi negli stessi luoghi, un po’ perché tendiamo, a volte, più a cercare ciò che conferma le nostre opinioni più che ciò che le mette in discussione.

Un errore che può essere risultato di tutto ciò è il cosiddetto “bias di conferma”2: si tratta della tendenza a selezionare le informazioni che sostengono o sembrano sostenere le nostre opinioni come più veritiere o autorevoli di quelle che le contraddicono. Questo porta inevitabilmente a una visione che non corrisponde alla realtà, pensiamo per esempio alla valutazione dei dati scientifici.

I social network, in quanto tali, non sono da considerare in maniera negativa, ma quando li frequentiamo è bene che teniamo conto che non ci muoviamo in un contesto neutro indifferente alle nostre azioni. Si tratta di un contesto che non rappresenta la realtà (che di per sé sta nelle cose), ma che, in qualche modo, costruisce una sua rappresentazione, a meno di non voler considerare performative le interazioni sociali, come avviene per esempio, nelle cosiddette “teorie del gender”. Anche in questo caso non si tratta di una novità, ma certamente la dimensione, la diffusione e la pervasività dei social network e la loro capacità di incrociare l’aspetto intimo e individuale (l’uso dal nostro cellulare o dal pc di casa nostra, in altri termini in un nostro proprio, privatissimo spazio) e la dimensione pubblica delle interazioni nella piazza digitale della rete, ne ha di molto amplificato gli effetti.

Essere consapevoli ed essere educati all’uso degli strumenti digitali è, quindi, necessario anche perché, spesso, quello che sembra l’ambiente effimero per eccellenza, può trasformarsi in uno spietato giudice, per di più dotato di infallibile memoria. Ciò che è memorizzato in rete può essere più saldo di ciò che è scolpito sulla roccia. Per questo motivo le conseguenze delle nostre azioni sulla rete possono essere imprevedibili e un’imprudenza di gioventù può danneggiarci anni dopo, magari nella ricerca di un lavoro o in altre situazioni in cui, ignorando gli anni passati, la maturazione, le esperienze umane, possiamo essere perennemente inchiodati a qualcosa che abbiamo detto o scritto. Insomma, una sorta di ergastolo virtuale in cui la fine pena è “mai”. Da una parte, c’è sempre più spesso un utilizzo molto disinvolto del linguaggio, dall’altra c’è sempre il rischio dello stigma che di fatto limita una manifestazione del pensiero davvero limita (si spiega anche in questo modo il sempre più ampio ricorso all’anonimato o ad account social con eteronimi o pseudonimi).

Se utilizzati male i social network possono essere dei luoghi in cui rischiamo brutti incontri: dalla disinformazione, alla manipolazione3, al bullismo, all’isolamento sociale e allo stress. Non basta essere connessi per essere realmente in comunicazione come ha recentemente ricordato papa Francesco nella sua esortazione apostolica post sinodale Christus vivit. Questo non vuol dire che bisogna evitarli, ma essere pienamente consapevole di come, eventualmente, usarli: nel mondo virtuale, come in quello reale, ci sono delle mosse che sono sempre vincenti: prima di tutto la capacità di ascoltare. Sarà sorprendente vedere come (anche se non sempre) scommettere sul bene, sul vero, sull’apertura verso il prossimo, invece che sulla contrapposizione e sullo scontro possa essere vincente. Sarà bello scoprire che se rifiutiamo di vedere l’altro solo come qualcuno da irridere, confutare o zittire, saremo trattati anche noi alla stessa maniera. Non è detto che accada sempre, ma questo non è un buon motivo per non tentare.

  1. Rai News, Minori e abusi online: + 50% nel 2021. Tra i 10 e i 13 anni la fascia più a rischio, https://www.rainews.it/articoli/2022/05/minori-e-adescamento-su-internet-+-50-nel-2021-tra-i-10-e-i-13-anni-la-fascia-pi-a-rischio-d699eb60-ccfa-4838-a921-f01a930d386f.html
  2. Bias di conferma https://it.wikipedia.org/wiki/Bias_di_conferma
  3. Si veda per esempio: https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-07/dottrina-sociale-chiesa-media-macchine-algoritmo-vita.html

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