Վա՜յ, երկու ճամբաներու մէջտեղ շուարած մեղաւորիս
[Va:y, erkow jambanerow mējeł šowarac meławoris]Ahimè! Mio peccatore che vaga stordito tra le due vie
Il Vegliante
Papa Francesco con la Lettera Apostolica Vidimus stellam del 12 aprile 2015 ha proclamato Dottore della Chiesa il monaco armeno Gregorio di Narek (Krikor Narekacʽi), vissuto nella regione del Vaspowkaran (“la terra dei principi”), sulla sponda meridionale del lago di Van, nella seconda metà del X secolo. Il papa lo ha definito una «stella luminosissima», maestro e gloria del popolo armeno. Un uomo dalla vita semplice, quasi anonima che, eppure, con i suoi scritti ha segnato profondamente la spiritualità e la cultura armena. Egli stesso si definisce «il più piccolo fra i poeti, l’infimo fra i teologi»: umiltà autentica che lo porta a scegliere per sé un appellativo che diventa a lui caro, quello di “Vegliante” che sembra, più di ogni altro, evocare il suo animo contemplativo.
L’esistenza terrena di Gregorio si svolge, grossomodo tra il 950 e il 1010: si ignorano con precisione i suoi estremi biografici come non gli si conoscono eventi particolari, se non l’ingresso in gioventù nel monastero di Narek. Come scrive Boghos Levon Zekiyan, la vita di Gregorio «non ha quasi storia». Suo maestro è il priore (vanahyr) e fondatore del monastero di Narek, Anania, fratello di suo nonno materno. Anania Narekacʽi (920-980) è uno dei più celebri vardapet (dottori in teologia) del suo tempo: le sue riflessioni teologiche e liturgiche contribuiscono grandemente a fondare a livello dottrinale il rifiuto dell’oros di Calcedonia, strutturando e chiarendo la posizione cristologica armena che si è avviata in seguito al confronto con i teologi greci al sinodo di Širakawan (862).
Gregorio non partecipa a sinodi né viaggia per insegnare nei numerosi centri di studio della sua regione: egli sceglie il raccoglimento, rimanendo tutta la vita nel monastero in cui è entrato adolescente. Egli insegna a monaci e laici, prega, ascolta coloro che sempre più frequentemente raggiungono il suo monastero per incontrarlo e chiedergli consiglio, contempla il Mistero ma contempla anche le «selvatiche e vergini bellezza della natura circostante, ascoltando la monotonia delle onde e dei venti». Il suo monastero, circondato da colli punteggiati dai frutteti di albicocchi, fichi, ciliegi e noci, immerso nei boschi di querce, lascia spaziare lo sguardo sulla distese delle acque del lago di Van bordeggiato da prati di artemisia, crochi, violette e papaveri. A nord il monte Ararat si staglia quasi all’orizzonte, maestoso e perennemente innevato. Lo stupore della bellezza della natura che lo circonda segna profondamente l’animo di Gregorio che sperimenta una struggente sintonia fra i propri sentimenti e il creato. Gregorio, soprattutto, scrive. Al di là di quelle dubbie o pseudepigrafe, gli si conoscono varie opere, suddividibili in quattro gruppi: le sue due principali (la Storia della Croce di Aparankʽ e il Libro della Lamentazione), i panegirici (fra i quali vanno ricordati quelli della Madre di Dio e quello dei Santi Apostoli), le odi (i Tał, in numero di diciassette, tra cui spiccano quelle sulla Natività, sulla Trasfigurazione e sulla Resurrezione) e i Ganj (“tesori”). La sua produzione è esclusivamente poetica e lo consacra come uno dei massimi autori di tutta la storia della letteratura armena in generale. Egli è uno sperimentatore coraggioso, tanto da poter essere considerato inventore di un genere letterario, quello – appunto – dei Ganj, a carattere poetico-liturgico. Si tratta di inni sacri concepiti per l’uso nelle celebrazioni pubbliche: il loro numero è oggetto di controversia fra gli studiosi (Gregorio ha infatti conosciuto svariati e buoni imitatori). Secondo l’editio princeps dell’opera omnia di Gregorio di Narek, curata e pubblicata dai monaci mechitaristi a Venezia nel 1840, i Ganj a lui attribuibili con assoluta certezza sarebbero tre: I Galust Surb Howgwoyn (Sull’Avvento dello Spirito Santo), I Surb Ekełecʽi (Sulla Santa Chiesa) e I Surb Xačʽn astowacәnkal (Sulla Santa Croce a Dio accetta).
Il Libro della Lamentazione
Il suo principale capolavoro è tuttavia, fuori di ogni dubbio, il Libro della Lamentazione (in armeno Matean Ołbergutʽean). Come acutamente osservato da Riccardo Pane tale opera può essere accostata alle Confessioni di Agostino: non solo per il simile ruolo svolto nella storia della spiritualità nelle rispettive aree culturali ma, anche, per le analoghe dimensioni spazio-temporali che pervadono l’opera, essendo quelle reali più profonde di quelle apparenti. Le due opere, infatti, vanno colte all’interno di una concezione del tutto intima e soggettiva dell’aspetto spazio-temporale, quella capace, cioè, di penetrare le profondità dell’anima umana in cui avviene l’autentico incontro con Dio. Sul piano formale siamo di fronte a un opera innovativa che è «estremamente ardita e originale nella sua concezione e struttura», tanto che lo stesso autore la definisce «nuova» (III, b). L’impatto del Libro della Lamentazione sulla cultura armena è dirompente, profondo e duraturo: è l’opera più trascritta (dapprima) e stampata (poi) in armeno, seconda solo alla traduzione delle Sacre Scritture, e finisce per essere nota, con una metonimia, come Narek, tanto che sembra quasi che l’autore e l’opera siano una sola cosa. È difficile per un occidentale cogliere la dimensione della portata culturale di un testo come quello di Gregorio, considerato non sacro ma illuminato, ritenuto santo non solo per il suo contenuto ma come oggetto in sé, venerato dunque come tale e reputato benefico non solo allorché viene letto ma anche in virtù del contatto con esso. In modo non dissimile dalle reliquie in area latina e delle icone nel mondo bizantino, infatti, esso ancora agli inizi del XX secolo viene posto presso il capezzale dei malati e degli agonizzanti.
Le pagine del Libro della Lamentazione dispiegano al lettore la scoperta dell’anima di uno dei più grandi mistici del cristianesimo. Tutta l’opera è un continuo, intimo, colloquio con Dio da parte di Gregorio, il «Vegliante»: chi si addentra fra le sue parole ha il privilegio di penetrare i più reconditi antri dell’anima del monaco armeno. Il lettore rimane interdetto e frastornato dalla quasi totale assenza di moduli narrativi, dal latitare di una evoluzione logica dei contenuti: tutto quanto «si risolve nell’espressione traboccante di un dramma interiore, vivida esperienza di una lacerazione interiore i cui poli sono il peccato e la misericordia di Dio, la morte e la vita, il finito e l’infinito», secondo l’efficace sintesi di Pane. Il sottotitolo stesso dell’opera introduce al modo in cui il lettore verrà condotto lungo le pagine: «I xorocʽ srti xōskʽ әnd Astowcoy», ossia “colloquio con Dio dal profondo del cuore”. Le parole del Libro della Lamentazione si succedono e rincorrono senza un ordine apparentemente preciso, non articolate e organizzate intorno a un nesso discorsivo: più critici hanno cercato di sistematizzare la materia ma, proprio, l’accostamento di ban (lemma con cui l’autore chiama i capitoli, corrispondente al greco logos) dottrinari ad altri a carattere laudativo o accusatorio sottolineano come questo tentativo tradisca l’intento originario di Gregorio.
Un tentativo non privo di fascino e opportuno ai fini di quanto scrivo, ossia quello di avere una panoramica sul Libro della Lamentazione, è, tuttavia, quello condotto dal francese Jean-Pierre Mahé e presentato al primo Simposio Internazionale di Letteratura Armena Medievale a Erevan nel 1986. Il testo di Gregorio potrebbe essere suddiviso in tre “sotto-libri”: il primo avrebbe come tema la conversione dell’uomo a Dio, il secondo l’amore di Dio verso l’uomo e il terzo l’attesa del Giudizio e della Resurrezione. Secondo Mahé i tre sotto-libri sarebbero ambientati in tre luoghi distinti, ossia, rispettivamente, nel gawitʽ (nartece della chiesa), nella chiesa e nell’aldilà in attesa del tempio celeste, corrispondenti alle tre condizioni di catecumeno o di penitente, di fedele riconciliato e di anima in attesa del Giudizio. I ban dal I al XXXIV, costituenti il primo blocco, hanno effettivamente come tematiche quelle delle condizioni della salvezza e del pianto per il peccato; il secondo “libro” (XXXV-LXXIV) mette al centro la grazia e il giudizio, la restaurazione dell’immagine del peccatore, la preghiera e il perdono della Chiesa; il terzo (LXXV-XCV) la creazione del nuovo mondo, la Chiesa celeste (e la deesis) e l’ingresso graduale nell’eternità. Lo stesso Mahè sottolinea come, nei fatti, molti temi siano compresenti in tutta l’opera, pur predominando in una particolare sezione: è innegabile, tuttavia, che ciò accada nell’esistenza stessa dell’uomo, nella quale peccato e redenzione sono due dimensioni che si fondono e rincorrono in maniera ricorrente.
La poetica di Gregorio di Narek mostra, proprio nella confusione strutturale del Libro della Lamentazione, un suo primo limite, quello della parola, incapace di esprimere in pienezza l’interiorità dell’autore. L’autore è un coraggioso sperimentatore, capace di forzare il linguaggio fino all’estremo, mettendone alla prova la potenzialità in una continua tensione. Vi è proprio una sorta di eclisse della narrazione a vantaggio della potenza evocatrice della parola che si sgancia dalle ancore della sintassi per consentire all’anima dell’autore di esprimere la profondità della contemplazione del Mistero. L’abisso della contemplazione di Gregorio è, tuttavia, paralizzato da una duplice fatica, «afasia» come la definisce Zekiyan, riguardante non solo l’aspetto formale del testo ma la stessa esistenza dell’uomo. Al centro di questa duplicità sta il limite, ciò che separa, cioè, finito e infinito, uomo e Dio, non essere ed essere. Solo il concetto di limite, di scarto ontologico fra uomo e Dio, è capace di fondare filosoficamente questa duplice afasia che si profila, quindi, come umanamente insuperabile.
La prima afasia è costituita dal peccato. Gregorio evidenzia l’indicibilità dell’esperienza del peccato, espressione massima della finitezza dell’uomo: esso conduce ogni individuo, attraverso la massima esperienza della negazione di sé, sull’orlo del non essere. Il peccato per Gregorio è indicibile sotto due punti di vista: quantitativo, poiché esso può moltiplicarsi e crescere infinitamente, e qualitativo, dal momento che, in quanto distruttore della condizione di grazia (che sulla terra è un bene ineguagliabile), supera ogni umana definizione: «la piaga della mia trasgressione soverchiò ogni analogia di similitudine» (Libro della Lamentazione XVIII, c). Divo Barsotti, lettore attento di Gregorio di Narek, ha colto l’acutezza e il tormento del senso del peccato che promana dalle parole dell’armeno: per il monaco toscano, profondo conoscitore della spiritualità orientale, raramente si incontrano vette così alte. Alcune espressioni di Gregorio nel Libro della Lamentazione evidenziano la giustezza dell’osservazione di Barsotti: «innumeri sono invece i peccati delle mie trasgressioni / ed inafferrabili dalla mente» (VI, c) e «né sono riuscito a definire l’intera essenza / degli svariati fallimenti serpeggianti nella nostra natura» (VI, d). L’uomo, per Gregorio, da solo non può salvarsi: solo la grazia può operare salvezza nella sua vita. Si spalanca a questo punto, però, una visione ulteriore del peccato che non si profila solo come una esperienza meramente individuale, personalistica, ma che, invece, apre ciascun uomo alla solidarietà umana, universale, cristico-ecclesiale con l’umanità tutta sprofondata nel male del peccato che la angoscia e annienta.La seconda afasia è quella, tipicamente orientale, dell’ineffabilità di Dio, dell’impossibilità di dire qualcosa di Lui. Per Gregorio la via è decisamente quella apofatica, essendo Dio il Trascendente, Colui che è radicalmente Altro da noi. Dio sfugge a ogni definizione, a ogni forma di analogia. Vale la pena riportare per intero alcuni versi del Libro della Lamentazione (XXXIV, c):
Non misurato con un nome, né significato da una denominazione
non analogato per una qualità, né pesato con la quantità
non configurato da un modello, né conosciuto per una modalità.
La risposta a questa indicibilità è per Gregorio data da un nuovo uso della parola, da uno stile che rompa solo in parte con gli schemi del passato, pur riprendendo moduli già presenti nella patristica orientale, in particolare in quella siriaca.
Nello stile di Gregorio di Narek un ruolo cardine ha l’uso di espressioni in forma litanica, di evidente ascendenza liturgica: è questo lo stilema predominante nel libro. Le litanie diventano, così, la forma poetica nella quale, a seconda delle caratteristiche che esse assumono, possono essere espressi i più svariati concetti. Zekiyan enuclea due tipologie di litanie: quelle «monotematiche» e quelle «politematiche». Con la prima tipologia si esprimono due grandi temi: la lode (a Dio, a Cristo in particolare, alla Vergine Maria, agli angeli e ai santi) e l’accusa dei peccati (e delle sue cause e conseguenze). Con la seconda, invece, attraverso un giorno di giustapposizione, sovrapposizione o contrapposizione si mettono in gioco i due grandi protagonisti del dramma eterno della vita, ossia Dio e l’uomo. Propongo qui solo due esempi, il primo dei quali è una lode a Dio, di tipo monotematico:
Signore mio, o Signore,
datore dei doni, bontà per natura,
il cui dominio si estende su tutti egualmente,
che solo crei dal nulla ogni cosa.
Glorificato, imperscrutabile, tremendo,
terribile, terrificante, forte, violento,
insostenibile, inaccessibile, inafferrabile,
incomprensibile, ineffabile, invisibile,
insondabile, impalpabile, inesplorabile,
senza principio, senza tempo.(III, a)
Il secondo, invece, mette in scena la drammaticità della relazione fra uomo e Dio, ricorrendo al modulo politematico:
Tu, se noi Ti sfuggiamo, corri dietro a noi,
se siamo indeboliti, Tu ci fortifichi,
se ci smarriamo, Tu ci spiani un sentiero facile,
se siamo intimiditi, Tu ci incoraggi […]
se mentiamo, Tu ci giustifichi con la tua verità […]
se non desistiamo dalla nostra volontà, Tu ci fai desistere […]
se ci alieniamo, Tu tieni lutto,
se ci avviciniamo, Tu fai festa,
se diamo, Tu accetti,
se noi ci rifiutiamo, Tu maggiormente elargisci i tuoi doni.(LI, b)
Consonanze domenicane: perché leggere Gregorio di Narek
La mistica dell’abisso, il senso del peccato e della Redenzione, la dimensione dialogica con Dio sono dunque tre dei tratti essenziali della spiritualità di Gregorio di Narek. Se chiaro e già studiato da più critici è il parallelo con Agostino, se affascinante è l’eco leopardiano del senso del limite come «molla ontologica che fa scattare la vertigine dell’infinito» (Zekiyan), vi sono a mio giudizio delle consonanze con tre grandi domenicani che giustificano ulteriormente la lettura del Libro delle Lamentazioni da parte di un occidentale che conosca e ami l’Ordine dei Predicatori.
La consapevolezza del limite umano come base di una mistica dell’abisso trova, a mio giudizio, una affinità con il pensiero di Meister Eckhart e, ancora di più, di Giovanni Taulero. Andando al di là della pura definizione di mistica della luce o delle tenebre, il pensiero di Gregorio di Narek, infatti, si qualifica come afasia, di impotenza nel dire cui consegue un abbandono totale all’abisso. È innegabile ritrovare un pensiero parallelo a quello di Eckart, laddove questi propone l’abbandono della conoscenza e della volontà per raggiungere nel profondo del proprio cuore Dio che è «al di là di ogni conoscenza» (Quinto sermone tedesco, 42). Altrettanto suggestiva e la consonanza fra il concetto di abisso di Gregorio e quello di «fondo interiore» di Giovanni Taulero. L’abbandono a Dio, la scelta della contemplazione, accostano sensibilmente (e innegabilmente) il pensiero dei mistici renani a quello di Gregorio.Il senso del peccato e la Redenzione sono un secondo tema essenziale per Gregorio. Il peccato non è per Gregorio solamente quello grave che uccide l’amicizia fra l’uomo e Dio ma è anche qualcosa di più: è l’astensione dalla progressione virtuosa, il rinunziare semplicemente al male senza scegliere il bene come nel ban LXXII.
Ho sentito da qualche «innocente»
– e non mi piacque –
dire in un modo inconveniente a Colui
dinanzi al quale nessuna carne dalla terra può giustificarsi:
«Mai ho commesso l’adulterio, mai ho fornicato,
né ho mai dato un bacio ai gusti mortali di questo mondo».
Ma ciò non dista dall’empietà.
Che il Signore Dio glielo perdoni!
Benché fosse vero ciò che diceva,
lui non ha progredito, quanto piuttosto ha inciampato.
La proposta di Gregorio è quindi quella di una etica positiva, delle virtù che guarda al fine di un percorso esistenziale più che alla mera obbedienza ai precetti morali, proponendo una forma di amore verso Dio che metta al centro il desiderio di non spezzare la relazione con lui. Vi è nelle parole di Gregorio un’esigenza di perfezione che giustifica l’alto senso del peccato: solo la grazia, l’agire di Dio può sanare l’uomo e aiutarlo a orientarsi verso di Lui. La potenza salvifica della grazia è tale agli occhi di Gregorio che, in modo iperbolico, scrive a proposito degli effetti del sacramento della riconciliazione di «grazia accresciuta rispetto al battesimo» (XXXV, a). Il Libro della Lamentazione può essere anche letto come un inno alla grazia, tema ricorrente in ogni sua parte. Nella parte iniziale, quasi un proemio, la grazia sacramentale è descritta con i toni di una ri-creazione:
M’irrorasti con l’acqua vivificante,
mi purificasti con la rugiada del fonte,
rinvigoristi le mie radici con il ruscello della vita,
mi cibasti del tuo pane celeste,
mi dissetasti col tuo sangue divino.(V, b)
Non penso di osare troppo a voler trovare nella concezione gregoriana della morale e della grazia una non debole consonanza con la relativa visione di Tommaso d’Aquino che, non a caso, conoscerà a metà del XIV secolo uno straordinario successo in Armenia, tanto da conoscere traduzioni delle sue opere in lingua locale (le prime in assoluto in lingua vernacolare, precedenti di qualche anno quelle in greco) e una duratura influenza sul pensiero teologico della Chiesa apostolica. È suggestivo rilevare che il fertile humus dottrinale in cui alcuni temi teologici (cristologia, sacramenti, escatologia) vengono affrontati al tempo della missione domenicana in Armenia sia profondamente imbevuto del pensiero di Gregorio di Narek.
Il terzo elemento, infine, quello del costante dialogo con Dio, non può in ultimo, non far pensare a un parallelo con il Dialogo della divina provvidenza di Caterina da Siena. La mia vuole semplicemente essere una ulteriore suggestione per giustificare questo invito alla lettura, senza addentrarmi nella questione più di tanto. Va premesso che la consonanza con Caterina va al di là del semplice aspetto formale del dialogo con Dio (comune a altre opere mistiche): c’è qualcosa di più. Chi ha frequentato e amato lo scritto cateriniano, sa bene, infatti, che al centro e alla base dell’esperienza di preghiera c’è per la santa senese la conoscenza di sé, possibile solo allorché l’uomo rientra in sé stesso, nella sua «cella interiore». Come non leggere un formidabile parallelo con quella continua iterazione dell’espressione gregoriana «dal profondo del cuore colloquio con Dio»? Tutto il Libro della Lamentazione è pensato come un itinerario di conoscenza autentica dell’uomo, una mistica di continuo abbandono, di sempre maggiore intimità con Dio che trabocca nella preghiera. Scorrere le pagine dell’opera armena è come addentrarsi nella “cella interiore” di Gregorio di Narek, assistere alla sua contemplazione, godendo dei frutti che egli graziosamente condivide con il lettore. Leggere il Libro della Lamentazione comporta una triplice dimensione esplorativa: accompagnati da Gregorio nella conoscenza della sua anima, sempre più possiamo riflettere sulla nostra interiorità e addentrarci nella conoscenza di noi stessi, per giungere a una nuova, illuminante, conoscenza di Dio.
Leggere Gregorio di Narek, allora, in conclusione può non solo far conoscere e apprezzare la spiritualità di una nazione profondamente cristiana e segnata da un coraggioso e abnegante amore per il Vangelo ma può anche aprirci nuovi e straordinari orizzonti sulla bellezza di una esperienza teologica e mistica che ha suggestive consonanze con il pensiero di alcune tra la più significative figure del Medioevo domenicano.