Rosa Luxemburg, Giobbe. Rivoluzionaria, comunista, polacca, ebrea ashkenazita, questa era Rosa Luxemburg. Nata nel 1871, morì assassinata a Berlino nel 1919. Tra il 1915 e il 1918 fu più volte incarcerata (a Berlino e Breslau). Dalla sue prigioni scrisse una serie di lettere all’amica Sonja Liebknecht. In queste lettere nessuno scritto politico e filosofico. Ne emerge, piuttosto, una spiritualità profonda, una tensione contemplativa che la “assorella” alle mistiche ebree che hanno illuminato l’angosciosa notte del ‘900 europeo (Simone Weil, Etty Hillesum, Edith Stein…).
Nell’opprimente solitudine delle gabbie in cui è rinchiusa, Rosa Luxemburg non si abbandona alla disperazione. Le sue lettere sono sempre impregnate di gioia, ottimismo, speranza. Questi stati d’animo sono fondati su uno sguardo capace sempre di cogliere la bellezza ostinata di una natura che si fa largo tra le pieghe della memoria, ma anche e soprattutto, tra le sbarre: il pezzo di cielo che si scorge dalla finestra, i rami del ciliegio che spuntano oltre le mura di recinzione, l’erba e i crochi che spuntano tra pietre e cemento, il canto degli uccelli. Lo sguardo di Luxemburg non è ingenuo, coglie il dolore inestricabilmente legato alla vita (nella lotta per la sopravvivenza di uno scarafaggio supino che agita disperatamente le zampe). Ciò nonostante, Luxemburg lo sa, resiste una bellezza invincibile, che nemmeno l’orrore della violenza, dell’oppressione, della rivoluzione industriale, della guerra (del peccato, del peccato originale) può soffocare. Questa bellezza è capace di consolarle il cuore, di riempirlo di pace e di gioia, la costringe ad allargare lo sguardo a un orizzonte che oltrepassa il male e la bruttura.
Ecco cosa scrive a “Sonitschka” Liebknecht da Breslavia il 2 agosto 1917:
Le finestre guardano a Nord Ovest, cosicché qualche volta vedo le belle nuvole della sera e lei sa che anche una sola di queste nuvole è in grado di commuovermi e ricompensarmi di tutto. In quest’attimo, alle 8 della sera (in realtà sono le 7), il sole è appena tramontato dietro il frontone della prigione maschile, brilla ancora di una luce abbagliante attraverso il lucernario di vetro sul tetto e il cielo intero è illuminato d’oro. Mi sento molto bene e devo – nemmeno io so perché – intonare sottovoce l’Ave Maria di Gounod (lei la conosce bene). (traduzione mia)
La capacità di cogliere la bellezza della natura ci inserisce in una dinamica trascendente. Il fatto stesso di rendercene conto, di contemplarla, non solo ci costringe a interrogarci sull’origine di questa bellezza, ci pone alla presenza stessa dell’Origine della bellezza. Anche se non ce ne rendiamo conto, anche se solo lo intuiamo, il creato è rivelazione di Dio. La bellezza del mondo è la rivelazione di Dio che si fa manifesta a noi: “della gloria del Signore è piena la terra” (Siracide 42,16), “dalla grandezza e dalla bontà delle creature si può conoscere il loro autore” (Sapienza 13,5), “i cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani” (Salmo 19,1). Messi di fronte alla presenza di Dio, il canto di lode nasce spontaneo (anche se Rosa Luxemburg non ne conosceva il perché). Ne è testimone la tradizione biblica che ci ha tramandato splendidi inni al creato:
Benedici il Signore, anima mia.
Sal 104, 1-5
Signore mio Dio, quanto sei grande.
Splendore e maestà è il tuo vestito,
avvolto di luce come di un manto.
Egli fissa i cieli come una tenda,
costruisce sulle acque le sue stanze,
fa delle nubi il suo carro,
cammina sulle ali del vento;
fa dei venti i suoi messaggeri,
delle fiamme guizzanti i suoi ministri.
Fondò la terra sui suoi basamenti,
mai potrà vacillare…
Benedite, opere tutte del Signore, il Signore,
lodatelo ed esaltatelo nei secoli.
Benedite, angeli del Signore, il Signore,
benedite cieli il Signore.Benedite, piogge e rugiade, il Signore,
Daniele 3,57ss.
benedite o venti tutti, il Signore.
Benedite fuoco e calore, il Signore,
benedite, freddo e caldo, il Signore.
Ma, forse, la riflessione più profonda sulla bellezza del creato è quella di Giobbe. Uomo giusto, ricco, con molti figli e nipoti, perde tutto per una futile (?) scommessa divina. Dal suo giaciglio di paglia, con un coccio a grattarsi le piaghe, chiede conto a Dio del male che ha ingiustamente dovuto soffrire. Le (piuttosto cerebrali) teodicee tentate dagli amici di Giobbe per giustificare il Signore servono a nulla.
Il Signore non risponde. Appare. Appare nella sublimità della creazione:
Sei mai giunto alle sorgenti del mare o hai passeggiato sul fondo dell’abisso? Per quale via si va dove abita la luce? E le tenebre dove hanno dimora? Sei mai entrato nei serbatoi della neve, hai potuto vedere i depositi della grandine? Da quale seno è nato il ghiaccio, e la brina del cielo chi l’ha generata? Puoi tu annodare i legami delle Pleiadi o sciogliere i vincoli di Orione?
Sei tu che dai al cavallo la bravura e lo rivesti di criniera al collo? Lo fai tu saltare come una locusta? E’ forse per la tua intelligenza che vola lo sparviero e spiega le sue ali verso il meridione? E’ al tuo comando che l’aquila s’innalza e costruisce il suo nido sulle vette?
Il problema del male nel mondo non trova risposta in un ragionamento. Non c’è nessuna spiegazione che ci tranquillizzi, che ci convinca che “è tutto apposto”, che “va bene così”. E’ la presenza di Dio che fa scomparire il male (ne rende evidente la nullità). Chi ha la grazia di sedersi al cospetto di Dio, di essere inondato dalla sua gloriosa bellezza, viene consolato, le sue ferite sanate, il suo dolore dimenticato o ancora meglio: sublimato (reso sublime).
Se la completa e definitiva manifestazione della gloria di Dio è la/il fine dei tempi, a noi, che siamo ancora qui in mezzo alla storia, è concesso (a volte, a qualcuno) un anticipo, uno scorcio di Dio, quando, di fronte alla bellezza, siamo presi dalla meraviglia. Questa è la contemplazione. Non è il frutto di una nostra capacità. Non ci si può educare a scoprire Dio nella bellezza del mondo. Non esiste disciplina che ci insegni a contemplare. Non è nemmeno premio o ricompensa. La contemplazione, che ci fa cogliere un qualcosa che è irriducibile alla chimica e alla fisica di quello che osserviamo, è sempre dono del cielo (concesso al santo Giobbe come alla comunista, anche lei santa?, Rosa Luxemburg). Il luogo privilegiato di questo incontro con il divino nella meraviglia e nella bellezza è il creato.
La bellezza di una nuvola al tramonto (se Dio ci dà la grazia per coglierla) ci ripaga di tutto quello che abbiamo perso. Questa è l’esperienza di Giobbe (credente, ma non ebreo) e di Rosa Luxemburg (ebrea, ma non credente). Forse è l’esperienza di molti di noi.
Se il creato è il luogo in cui Dio si manifesta nella bellezza, la distruzione della sua bellezza è ribellione a Dio, l’espressione del nostro rifiuto di incontrarlo e conoscerlo. Il creato è luogo santo. Deve essere oggetto del nostro rispetto, della nostra cura, del nostro amore. Atto di devozione e pietà è la sua custodia. La lotta per la conservazione dell’ambiente è santa. In questa battaglia siamo accompagnati da una speranza invincibile: alla fine nessuna bruttura potrà resistere alla bellezza del Cielo.