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Fra Henri Dominique Pire OP: il sentiero della pace

Fra Henri Dominique Pire OP: il sentiero della pace

fr. Giuseppe Filippini op
Fra Henri Dominique Pire op

L’11 Aprile del 1963 san Giovanni XXIII pubblicava l’enciclica Pacem in Terris, ultimo documento da lui lasciato alla Chiesa Universale ed a tutta l’umanità prima della morte il 3 Giugno dello stesso anno. A cinquant’anni dalla sua pubblicazione, inseriti in un mutato contesto sociale, politico ed ecclesiale, non possiamo che continuare a sorprenderci per l’affascinante connubio fra realismo e speranza che caratterizza questo importante testo. L’armonica compresenza di elementi apparentemente contraddittori non dovrebbe tuttavia sorprendere il cristiano: si tratta infatti semplicemente del segno vivo della presenza di Cristo, Colui nel quale la natura umana stessa trascende a tal punto la sua attuale condizione da assurgere alla sua più immediata ed evidente realtà. Non tenteremo in questa sede di analizzare a fondo questo documento né tantomeno di enuclearne i principali spunti di riflessione; ciò che ci preme è evidenziare come, alla base della tensione della Chiesa verso la pace, non vi sia né un qualche utopico ideale né un astratto sistema di pensiero. Ciò su cui ogni cristiano deve fondare tale impulso è la persona stessa di Gesù, vero Dio e vero uomo, attraverso il quale comprendiamo a tal punto la nostra natura da superare quella cecità verso noi stessi che è alla radice di ogni forma di violenza. San Giovanni XXIII stesso, nell’apertura di Pacem in Terris, evidenzia come una vera concordia non possa che fondarsi su di un’autentica comprensione dell’uomo in quanto creatura di Dio:

Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo; quando invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana. […] In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili. Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna.1

Su questo semplice assunto intendiamo qui presentarvi brevemente la figura ed il pensiero di un personaggio che fu al tempo stesso contemporaneo e precursore di questa enciclica, incarnandone nella vita e nelle opere lo spirito più profondo. Sto parlando di fra Henri Dominique Pire OP, al secolo
Georges Charles Clement Ghislain Pire, frate e sacerdote appartenente all’Ordine dei Predicatori nato a Dinant in Belgio il 10 Febbraio del 1910 e morto a Louvain il 30 Gennaio del 1969. Vincitore del Premio Nobel per la Pace, conferitogli l’11 Dicembre del 1958, fu uno dei più importanti attivisti per la pace del secondo dopoguerra, nonché paladino di una visione dell’impegno sociale, tanto umano quanto soprattutto cristiano, radicata nel realismo di cui si è parlato sopra.2 

Figlio primogenito di Georges e Berthe Pire, fra Dominique sperimentò in prima persona cosa significasse essere un rifugiato già all’età di quattro anni. Nel 1914 infatti fu costretto, con tutta la sua famiglia, a fuggire dal Belgio in seguito all’avanzata tedesca all’inizio della I Guerra Mondiale ed a cercare rifugio in Francia. Nel 1918, alla fine del conflitto, tornò a Dinant trovando il villaggio praticamente raso al suolo. Ripreso il normale ritmo di vita, studiò filosofia e lettere classiche al Collège de Bellevue; subito dopo il diploma, all’età di diciotto anni, entrò nell’Ordine dei Frati Predicatori nel convento di La Sarte a Huy dove, il 23 Settembre del 1932, emise i voti solenni assumendo il nome di Henri Dominique. Studiò teologia al Pontificio Istituto Internazionale Angelicum dove, nel 1936, prese il dottorato. Ordinato nel frattempo sacerdote nel 1934, dopo gli studi teologici si recò all’Università di Leuven in Belgio per studiare scienze sociali. Nel 1938 lo ritroviamo nel suo convento a Huy dove, oltre ad insegnare sociologia e filosofia morale, compì i primi passi nell’ambito caritativo ed assistenziale attraverso due associazioni a favore dei bambini più poveri e delle famiglie disagiate. Possiamo dire che ebbe il suo battesimo del fuoco durante la II Guerra Mondiale: non solo fu cappellano del movimento di resistenza belga, ma partecipò a vere e proprie operazioni di spionaggio, aiutando molti piloti alleati in difficoltà ad abbandonare i territori occupati dall’Asse. Questo suo servizio, oltre ad essere segno visibile del suo coraggio e della sua intraprendenza nell’aiutare i più deboli, gli valse anche un certo numero di riconoscimenti al valore militare. Dopo la fine del conflitto, mentre portava avanti con costanza il suo ministero sacerdotale a La Sarte, fra Dominique decise di studiare a fondo il problema dei rifugiati, particolarmente sentito nel secondo dopoguerra. Al netto anche di diverse esperienze pratiche, specie in diversi campi profughi, egli pubblicò nel 1949 un libro dal titolo Du Rhin au Danube avec 60,000 D. P. 3 e diede vita all’associazione Aiuto ai Rifugiati. Fra l’inizio degli anni ’50 ed i primi anni ’60 del ‘900 l’attività caritativa di p. Pire si sviluppò su tre livelli: per prima cosa egli promosse un movimento internazionale che consentiva a persone benestanti di “adottare” un rifugiato e la sua famiglia, facendo loro avere non solo aiuti concreti ma anche una vicinanza umana attraverso lettere ed altre forme di contatto; nel 1960 questa iniziativa contava circa 18000 aderenti. Ad un secondo livello troviamo le sue case di riposo per anziani, indirizzate specialmente a coloro che si trovavano costretti a vivere la terza età sradicati dal terreno sociale e familiare. Ne edificò quattro, tutte in Belgio: Huy (1950), Esneux (1951), Aertslaer (1953), e Braine-le-Comte (1954). Infine fra Dominique, volendo evitare che il radicamento economico e sociale dei rifugiati nelle città degenerasse nel fenomeno dei ghetti, sperimentò con successo l’edificazione di villaggi, in Europa; si trattava di centri abitati totalmente nuovi, composti da circa centocinquanta persone ciascuno e pensati per consentire agli abitanti, grazie anche ad aiuti, d’integrarsi dignitosamente nella società del paese ospitante senza venirne schiacciati. Ne realizzò sette, tutti fra Belgio, Austria e Germania Ovest, fra il 1956 ed il 1962. Dopo la vittoria del Proemio Nobel per la Pace nel 1958, p. Pire estese la sua azione al più generale problema della pace; fondò diverse organizzazioni ed istituzioni internazionali aventi come fine la promozione del dialogo e della fraternità fra i popoli, fra le quali certo spicca l’Università della Pace. Realizzata fra il 1960 ed il 1965 a Huy, questa istituzione offre sessioni di studi estive, di diversa durata, a chiunque voglia approfondire le diverse vie aperte ad un costruttivo lavoro per la pace nel mondo. L’istituzione volle sin da subito avere una dimensione internazionale, con corsi in francese, inglese, tedesco e olandese. Infine, fra il 1962 ed il 1967, al seguito di una visita in Pakistan, fra Dominique diede vita ad un progetto di sviluppo delle aree rurali del paese che intendeva combinare una strutturata cooperazione fra i diversi villaggi di una specifica regione alle risorse, monetarie e tecniche, fornite dall’iniziativa privata, il tutto gestito grazie ad una pianificazione periodica degli obiettivi di sviluppo. Egli morì il 30 Gennaio 1969 all’Ospedale Cattolico Romano di Louvain all’età di cinquantotto anni per complicazioni post-operatorie.Un documento estremamente prezioso per comprendere meglio la spiritualità e la prospettiva soggiacenti alla vita ed alle opere di questo frate Predicatore, nonché per coglierne il legame con la Pacem in Terris, è il discorso da lui tenuto in occasione della consegna del Premio Nobel per la Pace, un testo certo breve ma carico di tutta l’esperienza umana e spirituale del suo autore. 4 All’interno non troviamo semplicemente un’esposizione coerente delle sue idee e posizioni ma anche e soprattutto un gran numero di testi tratti da lettere e biglietti, frutti epistolari dell’attività internazionale di fra Dominique. In tali frammenti egli pare voler mostrare come la radice spirituale di ciò che visse divenga immagine chiara e distinta della sua carità solo attraverso il riflesso delle persone che ne beneficiarono. Ecco qui un esempio nel quale scorgiamo lo spirito che animò tutta l’attività di p. Pire per la pace e per le diverse vittime della violenza:

Per quanto radicate possano essere le nostre differenze, esse rimangono tuttavia superficiali. E quello che ci divide è di minore importanza rispetto a quanto abbiamo in comune. La migliore via per vivere in pace, con mutuo amore e rispetto, è riconoscere il nostro comune denominatore. Questo comune denominatore porta un nome davvero splendido: Uomo. Impariamo allora, una volta per tutte, a vedere un altro essere umano ed un fratello in ogni persona, a prescindere da quanto profondamente egli differisca da noi per le sue idee, la sua posizione sociale, la sua mentalità e le sue credenze. Impariamo anche ad assegnare all’uomo il suo vero valore, un valore che è sempre infinito. 5 

Come non vedere una diretta connessione fra questo pensiero e quanto espresso, pochi anni dopo, da san Giovanni XXIII? L’edificazione della pace, tanto a livello comunitario quanto individuale, nasce prima di tutto dal riconoscere l’umanità dell’altro, dal permettersi di scorgere in lui quel terreno comune che, quando noto e familiare in noi stessi, ci dona una comprensione del prossimo tanto profonda da poter superare non solo le divisioni ma anche la semplice, reciproca distanza. Questo però, come l’enciclica stessa rammenta, passa attraverso una valutazione dell’umano che, per essere piena e radicata nella realtà, non può che giungere all’infinito. Anche se nel discorso in questione p. Pire non pare porre in primo piano la sua fede in Cristo, tuttavia ogni suo atto, proprio in quanto fondato su questo principio, grida la sua riconoscenza verso quanto ricevuto dal Figlio di Dio. Solo in Lui infatti l’essenza dell’uomo si svela con una chiarezza tale da permetterci di comprenderne il vero valore consentendoci, di conseguenza, di amare il prossimo fino in fondo. 

Sulla base di questa profonda comprensione della dignità dell’altro, la pace può essere edificata su atti concreti, frutti di un amore che non si disperde nella confusione delle masse ma si volge a singole persone ed a specifici problemi. Fra Dominique pare, ed a ragione, voler non tanto giustificare quanto spiegare come, sulla base di un’attività orientata esclusivamente a determinate problematiche, egli possa proporre un cammino per la pace che sia universale. Per esplicitare questa connessione, egli parla degli iniziali atti di carità che ognuno di noi è chiamato a compiere, facendone i primi passi di un più ampio cammino:

L’atto iniziale dell’amore, che inizialmente sembra beneficiare solo alcuni sconosciuti, alla fine influisce sul mondo intero, diventando un vincolo di solidarietà internazionale. Questo è realmente magnifico” L’iniziale atto d’amore, al quale il mio corrispondente si riferisce, ti aiuta non solo a diventare un uomo con un unico scopo (in se stesso un potente attributo), ma inoltre e soprattutto, a mantenere il contatto con il genere umano stesso. Tale contatto è gratificante sia per te stesso sia per quelli che incontri. Non correrai a lungo il rischio di permettere all’umanità di diventare un mero concetto, sempre più astratto e teoretico finché non sparisca del tutto. Essa diviene ancora una volta ciò che realmente è: l’individuo umano, la persona in crisi, il singolo destino, le specifiche necessità. […]. Diffidiamo dalle soluzioni di massa, diffidiamo dalle statistiche. Dobbiamo amare i nostri vicini come noi stessi. Certamente, aiutare gli uomini individualmente implica naturalmente che non si possano aiutare tutti, almeno non direttamente. Dopotutto, chi in una sola vita può donare se stesso completamente a tutti? Ma quello che un uomo non può fare da solo, la volontà di molti può ancora compierlo. 6

L’amore di cui parla p. Pire, quella forza sulla quale si fonda la vera pace, oltrepassa la dicotomia fra universale e particolare, permettendo ad ognuno di amare l’intera umanità nei singoli fratelli, in coloro nei quali riconosciamo attuale ed esistente la natura umana stessa. I passi successivi verso la pace, che inevitabilmente si concretizzeranno in iniziative capaci di coinvolgere sempre più persone, non dovranno mai scambiare quei volti e quelle vite con numeri e grafici; il rischio, come ben esprime il testo riportato, è che l’amore iniziale, ciò che ci mosse, si diluisca al punto da mutare l’altro da oggetto amato a problema da risolvere. 

Anche in questo caso il credente, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, non può che riconoscere il capitale debito evangelico soggiacente ad un simile insegnamento. Difatti, così come nella persona di Cristo l’universalità della natura divina non trovò contraddizione nell’essere unita alla particolarità della natura umana assunta, così nell’agire di Gesù la vastità del Suo amore, dono diretto a tutto l’umanità, non temette di concretizzarsi in uno specifico contesto umano e sociale. Questo elemento, questo atto iniziale d’amore, così necessariamente protagonista di scelte particolari, è una costante dell’agire divino e, nel suo essere sempre fonte di scandalo per l’uomo, manifesta bene quanto poco comprendiamo la natura stessa della carità. Dio infatti, attraverso la storia della Salvezza, c’insegna che amare tutti non significa smarrirne i volti in un insieme indistinto, bensì vedere in ogni cuore l’unicità dell’Amato. 

Il frutto di questo modo d’amare non sarà tuttavia una pace costituita da una serie di punti isolati, da monadi di carità la cui universalità sia una mera somma delle parti. L’amore infatti, proprio come il bene, tende a diffondersi, a crescere, dando vita ad organismi che non eliminano ma integrano e trascendono le parti. In fondo, si tratta semplicemente dell’immagine evangelica del seme, ossia di qualcosa che, a partire da una condizione di debolezza e limitatezza, si espande dando vita a qualcosa di più grande e complesso. Coloro che, amando il prossimo in tal modo, si fanno vivi agenti di pace, devono sapere di essere simili a semi: le loro azioni, per quanto grandi e splendide, dovranno essere guidate dall’umiltà di chi, riconoscendosi creatura limitata, trae gioia e speranza dalla prospettiva di essere semplicemente l’inizio di qualcosa i cui confini trascenderanno la sua stessa memoria. Non si tratta semplicemente di assumere una prospettiva carica di speranza verso il futuro, ma soprattutto di vivere con serenità i ristretti confini del proprio agire. L’ambito di carità nel quale opereremo sarà infatti da un lato un punto d’inizio per molti, dall’altro lo specifico contesto nel quale si consumerà il nostro contributo:

Ed è così che ognuno di noi può rimanere esattamente ed umilmente ciò che è, compiendo qualunque compito Dio gli abbia posto innanzi; nel mio caso ciò consiste nel continuare a tracciare il mio piccolo solco nel campo degli interessi dei Rifugiati con amore, iniziativa, tenacia, realismo e pazienza. Non solo possiamo, ma dobbiamo stare ognuno al proprio posto, non tagliandoci fuori dal resto del mondo, ma lavorando per la pace dovunque possiamo. 7

Parole simili non possono che risvegliare nell’uomo, specie nel credente, un pilastro nascosto che sostiene ogni vera opera di pace: la fede nella Provvidenza. A fronte infatti dei dolorosi limiti cui anche le vite più splendenti vanni incontro, non basta una positiva fiducia nell’umanità, così spesso derisa dalla storia, per vincere il senso di scoramento che, infido, precede la chiusura nell’individualismo; solo coltivando la viva consapevolezza d’essere parte d’un disegno la cui conclusione è futura eppure attuale, il cui compimento è già da ora radicato nel bene, riusciremo a guardare le tenebre della nostra notte con lo sguardo di chi confida nell’alba.


  1. San Giovanni XXIII, Pacem in Terris, nn. 4-5, in Vatican.va, consultato il 17.03.2023.
  2. Tutte le informazioni biografiche provengono dalla pagina The Nobel Prize of Peace 1958: Georges Pire, in nobelprize.org, consultato il 18.03.2023.
  3. Dal Reno al Danubio con 60000 rifugiati (trad. nostra).
  4. Cf Dominique (George) Pire, Brotherly Love: Foundation of Peace, traduzione inglese basata sull’originale testo francese pubblicato su Les Prix Nobel en 1958, consultato dalla pagina The Nobel Prize of Peace 1958: Georges Pire, in nobelprize.org il 20.03.2023.
  5. Traduzione nostra. “Deep-rooted as our differences may be, they nevertheless remain superficial. And that which divides us is of less significance than that which we have in common. The best way to live in peace, with mutual love and respect, is to recognize our common denominator. This common denominator carries a truly splendid name: Man. Let us learn, then, once and for all, to see a human brother in each person, no matter how greatly he differs from us in his ideas, his social position, his mentality, or his beliefs. Let us learn, also, once and for all, to assess a man at his true value, a value which is always infinite.”; in Dominique (George) Pire, Brotherly Love: Foundation of Peace, c. 3.
  6. Traduzione nostra. “This initial act of love, which at first seems to benefit only a few unknown people, eventually affects the whole world, becoming a bond of international solidarity. This is truly magnificent.” The “initial act of love” to which my correspondent refers, helps you not only to become a man of single purpose (in itself a powerful attribute), but further and above all, to maintain contact with mankind itself. Such contact is rewarding both to yourself and to those you meet. No longer do you run the risk of allowing humanity to become a mere concept, increasingly abstract and theoretical until it disappears altogether. It becomes once again what it really is: the individual man, the personal crisis, the single destiny, the specific needs. […]. Let us be wary of mass solutions, let us be wary of statistics. We must love our neighbours as ourselves. To be sure, helping men individually naturally implies that one cannot help them all, at least not directly. After all, who in one lifetime can give himself completely to everyone? But what one man cannot do alone, the will of many may yet achieve”; in Dominique (George) Pire, Brotherly Love: Foundation of Peace, c. 1.
  7. Traduzione nostra. “And so it is that each of us can remain exactly and humbly what he is, doing whatever task God has set before him; this in my case is to continue with love, initiative, tenacity, realism, and patience, to plow my little furrow in the interests of Displaced Persons. We not only can, but should, stay each in his own place, not cutting ourselves off from the rest of the world, but working for peace wherever we may be”; in Dominique (George) Pire, Brotherly Love: Foundation of Peace, c. 2.

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